Piazza Serantini
Ormai, per tentare di giustificare le prepotenze compiute in strada dalle forze dell’ordine italiane, non resta che l’abusato ricorso ai versi di quella poesia di Pasolini su Valle Giulia che, peraltro, non viene mai citata integralmente. Hanno bisogno di quei versi, sia i partiti di destra come quelli di sinistra, per giustificare il loro stare “dalla parte dei poliziotti” ogni qualvolta un governo democratico ricorre alla violenza e qualcuno vi oppone resistenza.
Se c’è una storia che azzera questa falsa coscienza per legittimare l’abuso di potere e le singole responsabilità morali è quella di Franco Serantini, ucciso a Pisa nel 1972 dalla polizia mentre, come recita l’epigrafe sul monumento che lo ricorda, si opponeva ad un comizio fascista.
Franco non era un “figlio di papà”, ma un figlio di nessuno; non era un giovane che contestava la sua appartenenza alla classe privilegiata, ma uno studente-lavoratore che era nato e cresciuto dentro la classe di chi non possiede niente.
A distanza di quarant’anni, non solo il suo assassinio è rimasto impunito così come troppi altri, ma va osservato che nessuno dei “figli del popolo” che, indossando l’uniforme dei reparti Celere, lo uccisero di botte sul lungarno Gambacorti si è assunto l’umana responsabilità di ammettere la sua partecipazione al massacro di un ragazzo inerme.
Allora quei poliziotti, probabilmente, erano poco più che coetanei di Franco e forse tra i graduati c’era pure qualche padre di famiglia, così come si può presumere che molti di loro fossero di origine meridionale proprio come Franco, nato in Sardegna, eppure sino ad oggi la pietà è rimasta a loro estranea.
Da quarantanni queste persone non hanno smesso di autoassolversi, fuggendo ad un’assunzione pubblica di responsabilità. Se ciò fosse avvenuto, si sarebbe potuto anche ammettere che loro stessi furono vittime dell’obbedienza ad meccanismo sociale e politico, ma questo lungo silenzio rende eticamente uguali mandanti ed esecutori.
Lo scorso sabato 5 maggio, nel giorno in cui avvenne quell’assassinio, proprio in quella piazza S. Silvestro che, nella memoria collettiva, è poi divenuta piazza Serantini il ricordo di allora si è intrecciato con altre esperienze a noi più vicine, bruciando la distanza “storica” da quei fatti.
Le numerose e plurali realtà che hanno promosso la giornata dedicata a Franco hanno saputo, così come i tanti e diversi soggetti che vi hanno partecipato, mettere insieme le loro rispettive motivazioni, comunque nel segno di un impegno contro l’immutata arroganza del dominio nelle sue diverse forme sulle nostre vite.
Così per tutta la giornata, diverse centinaia di persone, giovani e anziani, abitanti del quartiere e provenienti da altre città, hanno animato e difeso quello spazio urbano minacciato da ristrutturazioni freddamente decise a tavolino, ritrovando una dimensione del “noi” che ai tempi di Serantini era l’anima di quartieri e piazze.
Non è infatti circostanza frequente riuscire a “mettere insieme” anarchici, comunisti, femministe, antagonisti, gay, antifascisti, ecologisti, antirazzisti, lesbiche e sindacalisti, in un clima senz’altro sereno e di reciproco rispetto.
Così come non capita spesso sentire le loro voci unirsi nei canti popolari e anarchici presentati dai cori Controcanto e dell’Agorà che per due ore sono risuonati sotto gli alberi.
E alla ricchezza umana si è aggiunta una ricchezza di argomenti, tra mostre, pubblicazioni, libri, interventi e l’importante dibattito sugli omicidi di stato che, dopo la sentita introduzione di Franco Bertolucci a nome della Biblioteca che porta il nome di Serantini, ha visto la partecipazione di Haidi Giuliani che, tornando ai terribili giorni di Genova contro il G8 e della morte del figlio Carlo, ha tenuto a sottolineare l’incongruenza di una giustizia che condanna chi rompe una vetrina e assolve chi, in divisa, rompe una testa. Eppure ancora oggi, con riferimento a quanto sta avvenendo in Val di Susa, si cerca di giustificare lo stato di polizia con la leggenda dei “black bloc”.
Sono quindi seguiti gli interventi di Raffaella Ruberti e Vincenzo Serra a nome del Comitato per Mastrogiovanni che hanno riportato l’inaccettabile distruzione psico-fisica a cui è stato sottoposto Francesco Mastrogiovanni, morto a seguito di un ricovero coatto per TSO. L’ultimo contributo è stato quindi quello dell’avvocato Ezio Menzione che, a partire dall’esperienza Serantini sul piano giudiziario, ha messo in evidenza come in Italia non solo si continua quotidianamente a morire in carcere e a negare ogni diritto ai/alle migranti rinchiusi nei Cie, ma i diversi governi democratici non hanno ancora introdotto nel codice penale il reato di tortura e continuano a garantire l’anonimato agli agenti in servizio d’ordine pubblico.
Tra le diverse comunicazioni, una delle più interessanti è stata quella di un compagno del Collettivo antipsichiatrico A. Artaud di Pisa che ha denunciato la pesante correlazione tra misure coercitive sanitarie quali psicofarmaci ed elettro-shock , politiche proibizioniste sulle sostanze e criminalizzazione delle “devianze”.
In questo modo, senza alcuna retorica, Serantini ci è stato compagno nel comune e attuale tentativo di comprendere e sovvertire un presente che sottrae sovente anche la consapevolezza di una diversa società possibile.
A sera nel contesto equo-solidale di piazza Martiri della Libertà, durante l’affollato concerto di Daniele Sepe, risentendo le parole e le note della canzone dedicata a quel 5 maggio di ben quattro decenni orsono, correvano molti pensieri, ma certo non all’indietro.
Marco Rossi
(Tratto da Umanità Nova)