interverranno:
Franco Bertolucci (Biblioteca Franco Serantini)
Renzo Giannini (Centro F. Buonarroti Toscana)
Francesco Cavalli-Sforza
Filosofo di formazione, lavora nella comunicazione e alla trasmissione di conoscenze. Come autore e regista, ha realizzato programmi cinetelevisivi a carattere educativo e fantastico, documentari istituzionali e programmi per i più giovani. Ha collaborato alla costruzione di sistemi di comunicazione ospedalieri e di percorsi conoscitivi su internet. Come divulgatore scientifico, ha pubblicato numerosi testi sull’ evoluzione umana insieme al padre, il genetista Luigi Luca Cavalli-Sforza, tra i quali: Razza o pregiudizio? L’evoluzione umana fra natura e storia (1996); La scienza della felicità: ragioni e valori della nostra vita (1997); Perché la scienza: l’avventura di un ricercatore (2005); Chi siamo: la storia della diversità umana (1993) nuova edizione 2013)-
LA PAROLA “RAZZA”
Il termine “razza” deriva probabilmente dall’arabo haraz, attraverso il francese quattrocentesco haras, con il significato di “allevamento di cavalli”. È un’origine appropriata al suo significato: una razza è, per definizione, un gruppo di individui della stessa specie dotato di caratteristiche costanti e trasmissibili, per cui il figlio di due cani pechinesi è un pechinese e il figlio di due levrieri è un levriero. La nozione stessa di “razze” è nata dalle pratiche di selezione artificiale nell’allevamento animale, per ottenere individui con caratteristiche particolarmente apprezzate. In uso fin dall’antichità, queste pratiche hanno assunto caratteristiche sempre più accentuate nel corso del tempo, fino ad assumere dimensione industriale negli ultimi secoli. Nella coltivazione di piante, le pratiche di selezione artificiale sono ancora più antiche, datano fin dalle origini dell’agricoltura, ma si parla piuttosto di “varietà”. Che il termine “razza” per gli animali sia nato proprio dall’allevamento dei cavalli potrebbe essere in rapporto con la straordinaria importanza che questi hanno avuto nella storia, per il trasporto e il lavoro come per il combattimento.
Nel corso della colonizzazione del pianeta, gli europei incontrarono popolazioni dall’aspetto, ma soprattutto dai costumi, del tutto diversi dai loro. Biologia e cultura sono state confuse a lungo, assimilando l’aspetto e i comportamenti degli individui, come fossero una cosa sola. Nei secoli in cui l’allevamento animale assumeva forme sempre più specializzate, fu naturale individuare questi popoli come “razze”, di solito anche “inferiori”, perché tecnologicamente arretrati rispetto ai conquistatori.
Con il progredire delle conoscenze divenne però impossibile distinguere con qualche precisione le numerose “razze” presenti nel mondo, tanto che già Darwin notava che ai suoi tempi le classificazioni disponibili variavano da due a più di cento, un fatto che di per sé le indicava come poco attendibili.
La realtà è che le popolazioni umane sono un continuum, dal punto di vista genetico, con modeste variazioni determinate più che altro dalle grandi barriere geografiche: monti e fiumi, mari e oceani. L’85% della differenza genetica tra individui si trova all’interno di ogni singola popolazione, solo un 15% distingue due gruppi diversi, dove un gruppo sono gli abitanti di una regione con poco scambio migratorio. Siamo una specie giovane, che si è diffusa in meno di 100.000 anni, non vi è stato il tempo perché si creassero grandi differenze, e comunque non siamo mai stati soggetti a selezione artificiale, anzi abbiamo continuato a mescolarci, in ogni epoca.
Le differenze che troviamo tra popolazioni sono minuscole e riguardano più che altro l’aspetto esterno del corpo, che è un risultato dell’adattamento al clima: la pelle, la superficie del corpo, la sua forma, sono la nostra interfaccia diretta con l’ambiente e ogni popolazione sviluppa adattamenti propri, spesso determinati anche da fattori culturali, come la dieta o l’uso di vestirsi. Sotto la pelle, queste differenze non ci sono, se non per diverse resistenze sviluppate a patologie diffuse nel proprio ambiente storico, o per particolari mutazioni diffuse all’interno di un gruppo geneticamente isolato. La variazione genetica è distribuita all’interno dell’intera umanità e non vi è nulla che permetta di individuare “razze” distinte, a meno che non vogliamo considerare ogni singolo gruppo come una razza a sé stante.
Parlare di razze nella nostra specie, insomma, oltre a essere sbagliato non serve a nulla. È la confusione tra biologia e cultura ciò che ha mantenuto in uso a lungo questo termine nel linguaggio comune, con riferimento agli esseri umani. C’è invece una grande differenza: mentre per la biologia scopriamo che la grande diversità si trova all’interno di ogni singola popolazione, e che le differenze tra popolazioni sono minuscole, per la cultura avviene l’opposto: c’è grande omogeneità all’interno di ogni singolo gruppo (dove tutti parlano la stessa lingua, hanno le stesse leggi, condividono in parte gli stessi costumi), mentre c’è grande diversità tra una popolazione e un’altra, a partire dal fatto che le rispettive lingue non sono reciprocamente comprensibili.
Se le razze nell’umanità non esistono, esiste purtroppo il razzismo, che prende di mira le diversità culturali, ne fa un unico fascio con le diversità d’aspetto, e vede nello straniero e nel diverso una possibile minaccia. In realtà, alla radice del razzismo vi è il “noismo”, cioè la tendenza di ogni gruppo a dare valore a se stesso, sminuendo o screditando altri gruppi per porre in rilievo il proprio: è un fenomeno che vediamo in opera dal tifo calcistico fino ai nazionalismi guerrafondai. Quando assume le forme del razzismo, diviene una vera e propria patologia del corpo sociale, di cui si soffre ad ogni latitudine e a cui si rimedia solo con lo scambio interculturale, dove la curiosità si sostituisca al conflitto e divenga possibile apprezzare le qualità dell’altro.
Francesco Cavalli-Sforza